mercoledì 19 agosto 2009

Un contributo sullo spettacolo: "Vita di quartiere", realizzato con gli utenti del Centro Diurno Psichiatrico della Asl di Lanciano


Il distillatore teatrale


Tra le rappresentazioni di grande professionalità e bravura ospitate dal Teatro Marrucino e i bagliori di estro e improvvisazione del Teatro di Strada (che speriamo di vedere anche quest'anno in una nuova edizione del Busker Festival) ci sono spazi intermedi per forme artistiche nuove ed interessanti.

La vita di quartiere rappresentata nello spettacolo di lunedì in piazzetta Vico di Chieti non era un dramma o una commedia. Era molto di meno e molto di più. Non c'erano gli attori professionisti capaci di annullarsi nel personaggio. C'erano persone vere che proponevano storie vere. Persone con tratti particolari e segni di storie difficili. La fatica della loro recitazione mostrava slanci e disagi autentici che le relazioni quotidiane obbligano normalmente a celare. Se nel teatro tradizionale è l'attore che dà vita al personaggio, qui c'erano personaggi che offrivano un affaccio alla personalità degli attori.

Il teatro di Antonio Tucci non nasce dalla fantasia di un autore, ma prende spunto dalle vicende vissute di persone comuni. Fatti normali rimasti nella memoria di qualcuno per qualche insondabile ragione. Però i racconti non sono portati sulla scena come interviste, non c'è una ricostruzione storica o giornalistica dei fatti. C'è solo il teatro che agisce, nella sua essenzialità, come un distillatore: i fatti già stagionati nella memoria e semplificati dal racconto vengono ulteriormente ridotti e stilizzati nella rappresentazione che travisa le vicende reali e nello stesso tempo le esalta. I frammenti di memoria escono così dall'intimità personale e diventano vissuto comune guadagnandosi anche la dignità del palcoscenico. La vicenda privata si pone al centro della pubblica piazza. Si fa storia e identità collettiva.

Il teatro, per chi lo ama, è sempre uno specchio magico interposto tra attori e spettatori. Da una parte ci sono gli spettatori che si specchiano in pezzi di vita altrui variamente deformati sulla scena, dall'altra l'attore contempla nella propria recitazione pezzi deformati di se stesso come in uno specchio dell'anima. Il teatro di Antonio Tucci è questo, ma è anche uno specchio che crea uno scambio tra pubblico e privato. Mostra la valenza collettiva delle vicende individuali e la valenza pubblica ed identitaria delle relazioni che si instaurano nella vita di quartiere.

pubblicato da http://chieti.blogspot.com il 1 luglio 2009

Hanno scritto su "inQuiete, le parole"


Terre di Teatri 2008:
Teatro del Krak - "inQuiete, le parole"

Terre di Teatri è un festival teatrale e musicale organizzato dal collettivo terrateatro della provincia di Teramo. Gli spettacoli si sono svolti a Giulianova, ne ho visti un paio e sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla rappresentazione "inQuiete le parole" del Teatro del Krak basato sugli scritti di Annemarie Schwarzenbach. Non conoscevo questa scrittrice svizzera che nei suoi diari riportava il suo disagio interiore e il male di un mondo che era prossimo alla rovina, con i nazisti che bruciavano i libri e la Seconda Guerra Mondiale che incombeva minacciosa sull'Europa.

Viaggiava Annemarie: Russia, America, Estremo Oriente...un po' per fuggire dai nazisti che erano ascesi al potere, un po' per trovare un luogo ideale in cui fossero stati sanati i conflitti tra le persone: non era la Russia comunista né in America ella riusci a trovare ciò che cercava.

Lei ci credeva, noi oggi sappiamo che le persone smettono di odiarsi solo dopo morte.

Allo spettacolo, in una sceneggiatura minimale, vi erano tre donne a rappresentare tre diversi aspetti di Annemarie: la bambina, il fanciullo che dentro ognuno di noi guarda a quello che ci succede sempre con gli stessi occhi ingenui e più di mille parole valgano questi versi di Patrizia Valduga:

Lo vedi bene cosa mi fa il tempo:

mi manda alla rovina, mi assassina...

però in me sento sempre, nottetempo,

un'anima bambina, adamantina;

Poi c'era Annemarie adulta che viveva, sperava e si disperava, si lanciava sulla bici, con le braccia a croce, nella vita futura. Infine l'ultimo personaggio era Annemarie adulta che tentava di razionalizzare tutti gli avvenimenti della sua vita scrivendo i suoi diari. Uno spettacolo meraviglioso.

Nel finale Annemarie bambina prende i diari e li legge per la prima volta, come se non li avesse scritti lei; ed è così: nella poesia precedente, l'aggettivo "adamantina" lo intendo come un'intaccabilità del fanciullo interiore: egli partecipa alla nostra vita, a volte ci consiglia, ma resta sempre puro, ogni mattina si è scordato di tutto il male che ha vissuto ed è pronto a ricominciare daccapo. Proprio come il diamente è la parte più pura e resistente di noi stessi.

Concludo questo discorso con il finale di Otto 1/2 di Fellini, dove alla fine resta solo il bambino, vestito di bianco, a suonare da solo.

pubblicato da http://ilcantodelrospo.blogspot.com il 24 dicembre 2008

Un contributo sullo spettacolo "Il lavoro che resta"


Il lavoro che resta, un invito alla riflessione


Lo spettacolo Il lavoro che resta messo in scena dal Teatro del Krak (compagnia teatrale di Ortona), per alcuni ha avuto un effetto spiazzante; effetto dovuto alla scenografia ridotta ai minimi termini, all’assenza del palco e allo stile recitativo particolare. Assuefatti forse dalle rappresentazioni dialettali comiche di quest’estate molti sono apparsi perplessi di fronte ai due attori che battevano un lungo bastone sul selciato, lasciando precocemente la piazza. A volte bisognerebbe, però, soffermarsi su ciò che si guarda: qualche istante in più avrebbe permesso di cogliere l’immediatezza di questo spettacolo. Un’immediatezza che solo un pregiudizio su ciò che si sta osservando impedisce di percepire; uno sbaglio, perché le brevi storie andate in scena offrono spunti importanti per riflettere su un mondo, quello contadino, apparentemente lontano dal nostro, ma in realtà rappresentante il punto di partenza di quella che oggi è la nostra quotidianità fatta di ben altri mestieri ed attrezzi di lavoro. Infine, un’immediatezza raggiunta grazie al preciso lavoro di preparazione dello spettacolo, in dieci giorni di raccolta delle testimonianze delle varie generazioni che hanno assistito agli importanti cambiamenti delle nostre zone.

I due attori che battevano i bastoni a terra, sullo sfondo della voce narrante, stavano riportando in vita gli eventi tragici di quel lontano 21 marzo 1950, quando i contadini impegnati nello sciopero alla rovescia (il costruirsi da soli la strada che collega Lentella alla Trignina, strada promessa e deliberata ma restia alla realizzazione da parte delle varie autorità), di ritorno dalle loro fatiche inscenarono una protesta davanti la camera del lavoro. Ad attenderli, i carabinieri che non esitarono a far fuoco sulla folla inerme; a terra rimangono Nicolantonio Mattia e Cosimo Mangiocco (il bilancio è anche di nove feriti). Una strage impunita (come in tutti i casi del genere la pena massima a cui si può aspirare per chi ha sparato, corrisponde al trasferimento in un’altra sede) paradossalmente conosciuta in tutta Italia (la CGIL indisse una manifestazione nazionale) e sempre più spesso ignorata dai giovani lentellesi.

Dagli avvenimenti locali si passa alla storia recente di Cupello, quando si scoprirono i primi giacimenti di metano ed i contadini iniziarono a sognare una vita diversa da quella passata interamente sui campi. Un sogno che rischiò di spezzarsi quando il governo decise di convogliare il prezioso gas verso le centrali di Terni e che riprese vigore e si materializzò dopo imponenti manifestazioni di protesta. Fu così che sorsero le prime centrali e fabbriche nel vicino territorio di San Salvo, qui i contadini che sognavano una vita diversa conobbero un lavoro maggiormente retribuito, conobbero le ferie, prima parola sconosciuta ai più, ma soprattutto, si trasformarono in operai. Insieme al benessere impareranno ad essere uniti nelle rivendicazioni per un lavoro più a misura d’uomo, nascerà la solidarietà tra colleghi (tutti uniti contro i padroni) e l’adesione a scioperi e manifestazioni sarà sempre di massa.

Grazie agli stipendi che superano di gran lunga il guadagno da contadino, inizia il fenomeno della migrazione verso San Salvo per esser vicini alle fabbriche, alle scuole migliori per i propri figli, per avere un appartamento con tutti i comfort; spesso tali spostamenti incrementano anche il reddito familiare grazie all’assunzione negli uffici delle stesse fabbriche delle mogli diplomate, pioniere di quel terziario oggi dominatore assoluto del mondo del lavoro.

E oggi? Il Teatro del Krak, non ha tralasciato quello che è l’universo lavorativo, diretto discendente delle storie contadine ed operaie rappresentate in precedenza. La nuova fase ha un ideale inizio con l’avvento di macchine sempre più evolute in grado di sostituire gran parte della manodopera; ed è così che le aziende, in crisi, tagliano centinaia di posti, ma pretendendo produzioni maggiori, introducono la mobilità gettando nella disperazione intere famiglie. A questo corrisponde il progressivo e triste sfaldamento dell’unità operaia: i sindacati non fanno più presa, sempre più manifestazioni vanno deserte, i padroni con il ricatto della mobilità e dei licenziamenti hanno facilmente in pugno la situazione, quelli che restano a lavorare nelle fabbriche (impegnati a stabilire record di produzione) sono per lo più mansueti operai perfettamente inquadrati e messi in riga.

La storia, poi, ancora più recente la conosciamo tutti: precariato in ogni settore e sicurezza su lavoro paragonabile ad una roulette russa. E i grandi scioperi per rivendicare migliori condizioni? Purtroppo sempre più un lontano e sbiadito ricordo di giorni ormai andati.

pubblicato da Antonio Dolce il 28 agosto 2008
http://pensierosso.blogspot.com